La morte del leader di Forza Italia è l’occasione per demistificare la narrazione su cui si è fondato il dibattito politico degli ultimi anni, quella di un paese sano rovinato dalle tv di un uomo amorale, privo di scrupoli, amico di criminali e dittatori, che oggi però tutti, inclusi moltissimi suoi detrattori, celebrano quasi ne avessero già nostalgia.
La scomparsa di Berlusconi è un’opportunità per fare un bilancio della fase politica iniziata con la fine della Guerra fredda e conclusasi alla fine degli anni ‘10 di questo secolo, sfatando alcuni dei miti su cui si è fondato il dibattito politico su questi trent’anni della storia italiana. Primo tra tutti quello secondo cui Berlusconi sarebbe l’uomo che ha rovinato l’Italia grazie all’influenza nefasta delle sue televisioni sulla popolazione e consegnato il paese a una destra antidemocratica e parafascista, sottraendolo alle amorevoli cure dei partiti progressisti e al benevolo influsso che avrebbe avuto un mercato non dominato dai suoi interessi personali. Lo spettacolo a cui abbiamo assistito in questi giorni – da una parte i funerali di Stato (previsti dalla legge), il lutto nazionale e la mielosa celebrazione da parte dei media, dall’altra la reazione indispettita di un pezzo di elettorato di centrosinistra, sono il frutto della contraddizione irrisolta che ha segnato la politica in questi anni.
Un uomo della Prima Repubblica
Quando il Muro di Berlino cade e l’inchiesta Mani Pulite travolge i partiti politici e il sistema economico italiani Berlusconi è ancora un self made man entrato un po’ avventurosamente nel business del mattone, della pubblicità e delle televisioni, dell’editoria, del calcio anche grazie alle solide relazioni non solo col PSI di Craxi, ma con l’intero sistema politico italiano, inclusi quei comunisti contro cui scenderà in campo nel 1994 e che saranno, almeno fino all’arrivo dei Cinque Stelle, il bersaglio preferito delle sue invettive e lo spauracchio utilizzato per ipnotizzare una classe media in ebollizione.
Negli anni ’80 le sue aziende finanziano la rivista della corrente migliorista del PCI milanese “Il Moderno”, insomma l’ala più filo-occidentale dei comunisti italiani, di cui è esponente di spicco Giorgio Napolitano, primo dirigente del PCI andato in visita ufficiale negli USA. Allo stesso tempo però Berlusconi conclude un accordo con la tv di Stato sovietica e ne diventa concessionario della pubblicità proveniente dall’Europa. Inoltre affiderà a una cooperativa vicina ad Armando Cossutta, il più filosovietico dirigente del PCI, i servizi di facchinaggio e di trasporto delle scenografie dei suoi studi televisivi. Eppure di questo capitolo nessuno ha mai parlato approfonditamente, anche se sarebbe utile per comprendere l’atteggiamento ambiguo, duro a parole ma morbido nei fatti, che i partiti eredi del PCI hanno sempre avuto nei suoi confronti, in particolare sul problema del conflitto d’interesse tra il politico Berlusconi e il Berlusconi proprietario di tre reti televisive.
Anche la narrazione del Berlusconi che fonda un partito e va al governo grazie alle sue tv si nasconde una verità molto più banale: il capo della Fininvest va al potere perché la borghesia italiana, dopo il collasso dei partiti della Prima Repubbblica, decide di investire su di lui. Una scelta condensata magistralmente nelle parole di Gianni Agnelli, capo della FIAT e degli industriali italiani: “Se vince lui abbiamo vinto tutti, se perde, ha perso solo lui”. Forte di questa investitura – nel 1994 Agnelli, senatore a vita, col suo decisivo voto di fiducia farà nascere il primo governo Berlusconi – quest’ultimo assembla Forza Italia mettendo insieme uomini presi dalle sue aziende e collaboratori di lunga data come Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Ennio Doris, Cesare Previti; il curatore degli interessi della mafia siciliana al nord, Marcello dell’Utri; e un manipolo di superstiti di tutti i maggiori partiti della Prima Repubblica: ex democristiani come Scajola e Pisanu; ex socialisti come Brunetta e Cicchitto; ex comunisti come Bondi e Ferrara; ex liberali come Biondi e Costa, persino ex sindacalisti della CGIL come Maurizio Sacconi, ministro del lavoro nel governo Berlusconi 4, o Giuliano Cazzola, che nel 2008 aderirà al Popolo delle Libertà, il tentativo abortito di fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, erede del MSI di provenienza fascista.Dopo aver fondato un partito di scampati all’inchiesta Mani Pulite Berlusconi cerca addirittura di reclutare Tonino Di Pietro, magistrato simbolo di quell’inchiesta, come ministro della giustizia del suo primo governo e per poco non ci riesce.
Il patto sociale berlusconiano
Soprattutto il fondatore di Forza Italia si dimostra capace di federare i principali potentati del capitalismo italiano – banchieri e industriali, Chiesa cattolica, criminalità organizzata – e allo stesso tempo di ammaliare un’altra componente fondamentale della società italiana: l’ipertrofica piccola borghesia delle mille piccole aziende, spesso familiari, dove i dipendenti si contano sulle dita di una mano vezzeggiata dalla politica illudendola di essere la struttura portante del capitalismo italiano. Berlusconi poi raccoglie le simpatie di un elettorato che dopo 50 anni di politici parrucconi e bigotti, a presincdere dal colore politico, si trova di fronte un personaggio sopra le righe, che condensa in sé pregi e difetti dell’italiano medio dell’iconografia corrente: simpatico e maschilista, intraprendente e maneggione, ammalato di calcio e un po’ cialtrone.
Il centrodestra, la grande invenzione di Berlusconi, è il contenitore in grado di tenere insieme le grandi imprese e le grandi banche del nord, di cui Berlusconi è, pur in modo contraddittorio, espressione, i padroncini del Veneto e dell’Emilia-Romagna rappresentati dalla Lega, settori di burocrazia e di pubblico impiego del Centro e del Meridione legati alla destra di Alleanza Nazionale (oggi Fratelli d’Italia). Un equilibrio che regge fino a che la grande recessione del 2007-2008 non irrompe anche in Europa e limita i margini di manovra finanziari dei governi nazionali. Il grande capitale è costretto a scaricare i costi della crisi non solo sui lavoratori, ma anche su quella piccola borghesia che in Italia sin dai tempi della Prima Repubblica ha goduto della speciale protezione di tutti i governi, soprattutto mediante quel sussidio non dichiarato che è la tollerenza nei confronti dell’evasione fiscale, di cui Berlusconi è stato un campione.
Allo stesso tempo l’ondata di recessione spinge su una rotta di collisione tra loro le grandi potenze eredi dei blocchi della Guerra Fredda e mette in discussione la relativa autonomia che aveva caratterizzato a lungo la politica estera italiana, quella che ad esempio aveva visto Andreotti e Craxi mantenere rapporti amichevoli col mondo arabo e, sotto banco, con la stessa URSS e in nome della quale nel 1985 i carabinieri e gli avieri italiani avevano circondato i soldati della Delta Force americana nella base NATO di Sigonella e impedito loro di impadronirsi dei dirottatori palestinesi della nave da crociera Achille Lauro, che durante l’azione avevano ucciso un cittadino americano di origine ebrea. Berlusconi è figlio ed erede di quella tradizione politica e tiene rapporti amichevoli con Putin e Gheddafi, che garantiscono al capitalismo italiano cospicui vantaggi, ad esempio in termini di approvvigionamento energetico.
A una parte del grande capitale nazionale e internazionale quel presidente che utilizza le finanze pubbliche e il fisco per tenere in vita una miriade di piccole e spesso poco produttive imprese italiane, intrattiene rapporti con leader sempre più invisi a Washington e compete sulle forniture di petrolio e di gas con Francia e Gran Bretagna risulta ormai indigeribile. La resistenza di Berlusconi all’invio di bombardieri italiani sulla Libia, piegata soltanto dall’intervento diretto di Napolitano, nel frattempo diventato presidente della Repubblica, è, forse, la goccia che fa traboccare il vaso e la grande occasione persa da Berlusconi. Una parte del mondo imprenditoriale inoltre gli rimprovera di curare più gli interessi delle aziende di famiglia che l’interesse generale, di classe, della borghesia italiana.
Il declino
Lo scandalo del bunga bunga è l’occasione propizia, se non l’espediente perfetto (ma non voglio essere complottista), per scatenare una crociata moralistica contro di lui, accusandolo di una condotta libertina, argomento sempre efficace in un paese cattolico fino al midollo che ospita il Vaticano. E così alla fine il Cavaliere è costretto a dimettersi e a cedere il passo a Monti, esponente del grande capitale e della tecnocrazia europea, e due anni dopo la magistratura gli infligge una delle rare condanne subite in una lunghissima serie di processi, quasi tutti terminati o con l’assoluzione o con la prescrizione.
Tutto quello che viene dopo è solo una lunga serie di colpi di coda di un personaggio politico di cui tutti annunciano la fine, ma che, anche con un partito ridotto ai minimi termini, e di fronte all’ascesa prima di Salvini e poi della Meloni, resta sempre in sella e in grado di condizionare gli equilibri politici. Ci riesce facendo leva su una delle sue principali doti: la capacità di cogliere gli umori dell’opinione pubblica e di sintonizzarsi con essa, come si è visto, nell’ultima campagna elettorale nazionale, quando ha lasciato trapelare le sue critiche alla politica italiana ed europea in Ucraina. Il lutto nazionale deciso da Giorgia Meloni appare anche la celebrazione della definitiva eliminazione di uno dei maggiori potenziali problemi a lungo termine del governo.
In conclusione, dunque, chi è stato dunque Silvio Berlusconi? È stato un padrone, espressione degli interessi dei padroni italiani, spesso soprattutto dei propri, quest’ultimo uno dei suoi peccati originali. Un imprenditore diventato politico su investitura di un ampio schieramento di forze all’interno del capitalismo italiano per suggellare la fine della Prima Repubblica, costruendo una sorta di arca di Noè in cui imbarcare gran parte del personale politico reduce da Mani Pulite e usandolo per difendere i vecchi interessi della borghesia italiana nel nuovo quadro politico e sociale determinato dalla fine dell’incubo comunista, facendo credere agli italiani che in realtà i comunisti erano sempre dietro l’angolo e sotto mentite spoglie.
In questo quadro l’offensiva contro i lavoratori italiani è stata uno dei cardini dell’azione dei suoi governi, un’offensiva condotta sempre in competizione col centrosinistra. Va ricordato, ad esempio, che la madre di tutte le battaglie di Berlusconi contro il sindacato, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che tutela dai licenziamenti illegittimi, è stata preparata dalle dichiarazioni di un ex comunista, D’Alema, portata avanti per vent’anni da Berlusconi senza mai essere vinta, e conclusa dal tecnocrate Monti e dall’ex democristiano Renzi. E che il centrosinistra in trent’anni è riuscito a governare più a lungo di Berlusconi per un verso strappando voti ai suoi sempre meno numerosi elettori in nome della difesa della democrazia e della legalità, dall’altra cercando di accreditarsi agli occhi della borghesia italiana e internazionale come la coalizione capace di fare le stesse politiche di Berlusconi con meno clamore e senza privilegiare le sue aziende. La dolente commozione con cui anche i dirigenti del Partito Democratico, Schlein in testa, hanno accolto la scomparsa dell’avversario è perfettamente comprensibile: per trent’anni Berlusconi, così come oggi Giorgia Meloni, è stato colui che ha tenuto in vita un centrosinistra moribondo. Nei loro panni chi non lo ringrazierebbe?